Il retail tradizionale sta cambiando, velocemente, anzi è già cambiato moltissimo con la rivoluzione copernicana digitale,e la parola “omnichannel” non evoca più qualcosa che si doveva fare ma non si sapeva bene come, quanto sempre più la realtà dei brand. A fare il punto sul presente e sul futuro del retail nella moda e nel lusso è l’interessante studio “Frontier(less) Retail”, appena pubblicato da The Innovation Group, laboratorio di ricerca del gigante della pubblicità J. Walter Thompson, in partnership con Wwd. Un report futuristico, dove si depreca chi pensa che “innovare” sia inondare il proprio store di schermi interattivi, e che esamina invece le potenzialità di realtà virtuale, intelligenza artificiale, marketing emozionale, droni e robot capaci di leggere le emozioni del cliente tramite complesse tecnologie cognitive.
Il mondo stesso, in realtà, sarà sempre più digitale e connesso: Bi Intelligence stima che entro il 2020 esisteranno 24 miliardi di device dell’Internet of Things, in crescita media annua del 41%, che saranno usati in gran parte dalla “Generazione Z” (i 13-17enni di oggi) pronti a mandare in soffitta i Millennials e la Generazione X. In ogni caso tutti, come ha rilevato il report, sarebbero molto più interessati a entrare in un negozio se vi trovassero delle soluzioni che uniscano shopping digitale avanzato e intrattenimento.
Il retail del futuro, infatti, sarà sempre più “esperienziale”, come lo sarà d’altra parte il lusso e per questo è sulla strada giusta chi, come Ralph Lauren, Prada, Gucci, investe anche in café e ristoranti: in futuro, però, le esperienze si evolveranno in «eventi artistici, scientifici, meglio se visivamente spettacolari, in modo da essere condivisi su Snapchat o Instagram – si legge nel report -. Si punterà anche sul volontariato, sul benessere, e anche su attività di crescita personale o festival che uniscano innovazione, spiritualità e corretta alimentazione». Certo, questo pone delle enormi sfide creative, perché dei brand si apprezzerà non più il logo o i prodotti in sé, ma le esperienze che sapranno proporre, un aspetto molto più soggettivo di un mero prezzo.
Paradossalmente, comunque, visto che sarà il negozio fisico il centro di questa evoluzione, i nuovi strumenti aiuteranno le vendite in store, dove si troveranno robot assistenti alle vendite e capaci di leggere le emozioni di un cliente (uno è stato presentato proprio sul palco dell’ultimo Luxury Summit del Sole 24 Ore), realtà virtuale (già sperimentata con successo da Tommy Hilfiger in alcuni store, dove si poteva comprare la collezione AI 2015 come stando seduti sul front row della sfilata), intelligenza artificiale e “retail emozionale” (quello di UMood, device lanciato da Uniqlo che suggerisce la camicia più adatta all’umore del cliente, di cui legge i segnali cerebrali). Certo, si tratta di innovazioni costose, che solo i giganti possono permettersi, almeno per ora: ecco perché Amazon è spesso l’apripista in questo senso, e a ogmni sua innovazione l’asticella per gli altri retailer si alza. Quando per esempio lancerà il suo servizio “Prime Air”, consegna via drone in 30 minuti, non sarà facile stare al passo. Ma anche per questo, secondo Morgan Stanley, entro il 2020 il 19% delle vendite di abbigliamento negli Stati Uniti si farà su Amazon. Tuttavia, il benchmark a cui guardare è la Cina, dove il mix fra uso dei social-shopping online-lusso esperienziale è per certi versi più avanzato dei mercati occidentali, e spinge la costruzione di shopping mall “fisici”: nel 2015, per Cbre, delle prime 12 città mondiali per numero di centri commerciali realizzati, 10 erano in Cina. (24 Ore.it)